Di Ravenna, scomaparso il 21 marzo 2020 all'età di 98 anni.
Quel giorno Giulio Antoniacci era in coda per imbarcarsi sul piroscafo Oria, ma all'ultimo lui ed altri commilitoni furono respinti poiché il numero dei passeggeri era già troppo elevato.
Il giorno seguente fu portato all'areoporto perchè doveva esser trasferito. Venne caricato su un malfunzionante bombardiere tedesco che parti in coppia con un altro aereo. Quel viaggio fu terribile: "Eravamo legati l'un l'altro e i tedeschi armati ci tenevano costantemente di mira. Inoltre, fummo mitragliati da caccia inglesi, tant'è che l'altro aereo non è mai arrivato a destinazione. Riuscimmo ad atterrare all'aereoporto di Tatoi (Atene)".
Giunti ad Atene, furono deportati in un campo di concentramento. Lì era già giunta la notizia che la nave su cui doveva essere imbarcato, era affondata vicino al Pireo urtando degli scogli per colpa di una burrasca.
Giulio ed altri suoi compagni vennero caricati su un autocarro tedesco per fare un viaggio di qualche ora che li avrebbe portati ad un litorale. Avvicinandosi sempre più alla costa, Giulio si accorse che la baia era invasa da cadaveri (sia sulla spiaggia che in balia dei flutti). La moltitudine era tale che svenne, causa anche la sua giovane età.
Ripresosi, le due guardie tedesche ordinarono di seppellire tutti i corpi in una fossa comune. Li fornirono di una scialuppa, guanti, badili e tabacco da masticare per mascherare il puzzo dei morti.
La fossa non poteva esser scavata troppo in profondità, perchè già dopo mezzo metro c'era uno strato di roccia imperforabile.
Infine venne ricoperta, al meglio possibile, di sabbia, affinchè la notte i rapaci non si cibassero dei resti. Le condizioni dei corpi, dopo giorni e giorni in acqua, erano terribili. Questo lavoro durò circa 2 mesi. Nel frattempo Giulio alloggiava in una palazzina assieme a 4 compagni e due guardie.
"Dopo i primi giorni di raccolta sul luogo, ci venivano fornite informazioni su dove si trovassero nuovi corpi giunti a riva a causa dell'alta marea. Alcuni di questi erano finiti su scogliere molto alte ma comunque dovevano essere recuperati. Dopo più d'un mese le condizioni dei cadaveri erano indescrivibili. L'ultima segnalazione fu di un cadavere trovato a molti chilometri di distanza dalla baia. Venne seppellito sul posto".
"Terminata la fossa comune, venne fatta mettere su di essa una cornice di sassi a forma di stemma fascista, vennero piantati dei fiori di campo e fu fatto scrivere (sempre coi sassi) DUX, in quanto si doveva dare l'idea che essi fossero morti per difendere il fascismo; ma la realtà era ben diversa: erano morti per sfuggire al fascismo, infatti tutti i passeggeri erano considerati Badogliani, sovversivi per non aver aderito alla Repubblica di Salò".
"Nonostante l'ingrato compito, quei due mesi furono piuttosto confortevoli, poichè i Greci ci aiutarono molto".
Dopo il rientro ad Atene, Giulio Antoniacci venne caricato in un treno con destinazione Germania.
Giulio Antoniacci era marconista del 148° reggimento di genieri, di stanza a Rodi, presso il palazzo del governatore in qualità di telegrafista. I suoi compagni d'avventura invece provenivano da un reggimento di fanteria.
A marzo 2012 una trouppe RAI lo ha intervistato.
Ringraziamo il Sig. Giulio Antoniacci ed il nipote Matteo per la preziosa testimonianza.
Figlio di un pescatore, aveva 18 anni quando la notte dell'11 febbraio 1944 fu testimone del naufragio.
"Si è sentito un grande boato, poi, mentre ci chiedevamo cosa fosse, un sibilo lungo e cupo".
"Era buio, c'era molto vento e pioveva molto forte, il mare era mosso come non ho più visto da allora".
Yannis ricorda che nelle ore seguenti arrivarono a terra una ventina di sopravvissuti e poi, per giorni, anzi per mesi, corpi senza vita.
"La scena dopo il naufragio, tutti quei corpi, fu terribile, terribile".
Yannis vive a Legrena.
Rai 1 Tv
Nel '46 redasse, per il ministero, un resoconto del naufragio.
"Dopo l'urto della nave contro lo scoglio venni gettato per terra e quando potei rialzarmi un'ondata fortissima mi spinse in un localetto situato a prua della nave, sullo stesso piano della coperta, la cui porta si chiuse. In detto locale c'era ancora la luce accesa e vidi che vi erano altri sei militari. Dopo poco la luce si spense e l'acqua iniziò ad entrare con maggior violenza. Salimmo in una specie di armadio per restare all'asciutto, di tanto in tanto mettevo un piede in basso per vedere il livello dell'acqua. Passammo la notte pregando col terrore che tutto si inabissasse in fondo al mare".
"Le ore passavano ma nessuno veniva in nostro soccorso. Uno di noi, sfruttando il momento che la porta rimaneva aperta, si gettò oltre essa per trovare qualche via d’uscita e dopo un’attesa che ci parve eterna lo vedemmo chiamarci al di sopra del finestrino. Ci disse allora che era passato attraverso uno squarcio appena sott’acqua. Un altro compagno, pur essendo stato da me dissuaso, volle tentare l’uscita ma non lo rivedemmo più".
"Quello che era riuscito ad uscire ci disse che dove eravamo noi, all’estremità della prua, era l’unica parte della nave rimasta fuori dall’acqua e che intorno non si vedeva nessuno all’infuori degli aerei che continuavano a incrociarsi nel cielo e ai quali faceva segnali. Poco dopo si accostò una barca con due marinai; essi dissero che erano italiani, dell’equipaggio di un rimorchiatore requisito dai tedeschi. Ci dissero di stare calmi che presto ci avrebbero liberati. Ma sopraggiunse l’oscurità e dovemmo passare un’altra nottata più tremenda forse della prima".
"Giunto finalmente il mattino sentimmo rispondere alle nostre grida di soccorso. Giunsero dei marinai che, servendosi di una fiamma ossidrica, crearono un'apertura".
"Venne, infine, il momento di uscire dopo quasi 40 ore passate in quel bugigattolo che credevamo dovesse essere la nostra tomba".
Nato a Barletta, classe 1921.
Testimonianza dei figli.
"Lui non raccontava volentieri del naufragio perchè il ricordo lo faceva soffrire molto, ma ci diceva che, in una fredda notte invernale, era partito da Rodi a bordo di una nave che a causa della tempesta e del mare agitatissimo era affondata a poca distanza da un isolotto. Lui, che non avendo trovato posto nella stiva era rimasto sul ponte, cadde subito in mare e grazie ad un'onda fu scaraventato insieme ad un altro soldato su uno scoglio e lì rimasero abbracciati tutta la notte senza riuscire nemmeno a parlare a causa del freddo. Il mattino dopo furono soccorsi dai pastori del luogo. Non ci ha mai detto il nome della persona che si salvò con lui, forse non lo ricordava o addirittura non lo aveva mai saputo, ma diceva che era italiano e molto probabilmente napoletano. Sopravvissuto al naufragio, fu deportato in un campo di lavoro in Germania, molto probabilmente lo stalag VI C, dove trascorse parte della sua prigionia in una stazione ferroviaria a riparare binari, e poi in una miniera. Benchè fosse un gran chiacchierone, non ha mai parlato spontaneamente di "quel pezzo della sua vita", e alle nostre domande rispondeva a monisillabi. Proprio non voleva ricordare o perlomeno non con noi. Per tutta la sua vita, nel giorno in cui ricorreva la tragedia dell'Oria, mio padre si chiudeva in un silenzio profondo...".
Giovanni Corcella è mancato nell'ottobre del 2001.
Testimonianza del 1946 di Pietro Sordi, uno dei pochissimi sopravvissuti al naufragio.
L'8 settembre 1943 ero in servizio militare in forza al 312° Battaglione Carristi, Compagnia Moto Mitraglieri, dislocato nell'isola di Rodi. Dall'8 al 12 settembre ho combattuto contro i tedeschi, precisamente in località chiamata Centrale. Venni fatto prigioniero e internato nel campo di Trianda. L'11 febbraio venni imbarcato su una nave norvegese per essere deportato in Germania. Arrivò l'ordine di partire dal Monte Luca. Partimmo il giorno 9 febbraio per raggiungere il campo di Asguro, dove sostammo solo due giorni, da lì ordine di imbarco. Il campo di concentramento di Asguro dista dal Porto di Rodi circa 6 km, con lo zaino in spalla, la coperta e il telo da tenda rotolato ed appeso lungo lo zaino, ci mettemmo in cammino, dopo qualche ora ci trovammo nel piazzale del porto commerciale di Rodi, 4032 italiani, dopo pochi minuti fummo imbarcati, cioè, “imbarattati” come le sardelle, in una nave da carico di circa quattromila tonnellate di cui non ricordo più il nome, ma sentì dire che era una nave norvegese. Messi uno sopra l'altro con furia e forza da certi disgraziati tedeschi, che per sollecitare e mandarne più del carico, ti accompagnavano per le due scalette di legno che dalla coperta scendevano in stiva, quei galantuomini che v'ho parlato poc'anzi, ci levarono le due scalette di legno rimanendo con un buco di circa due metri quadrati per respirare. Completato il carico anche nella coperta della nave, arrivammo alle ore 16, pochi minuti dopo la nave lasciò la banchina, dando noi tutti l'ultimo addio alla bella cittadina e all'isola maledetta di Rodi. L'11 febbraio era una serata grigia e nuvolosa, il vento gelido fischiava attraverso gli alberi della nave, intanto il mare gonfiava sempre più, arrivati al largo del porto la nave cominciò a fare l'altalena e lì “salvato o popolo” dov'ero io in stiva, uno rigettava sulle ginocchia del compagno, l'altro sulla spalla, il terzo sbuffava sulla faccia del compagno mentre dall'alto ci arrivavano pezzi di gallette, sugo di scatolette in acidità. Tutta la nave era piena di singhiozzi, di lamenti di dolore. Il naufragio avvenne a causa della gran burrasca trovata in mare, e il comandante capitano tedesco sbagliò rotta ed andò a cozzare contro uno scoglio dell'isola. Dopo che le acque mi buttarono alla riva della costa greca, i tedeschi mi presero e mi portarono al campo di concentramento di Gudì (Atene) compresi gli altri superstiti. Sballottato da un campo di concentramento a un altro, finalmente fui liberato dai partigiani dell'ELA nella cittadina di Larisa. Dai partigiani fummo passati alla Croce Rossa, dalla Croce Rossa agli inglesi. Rimpatriai a Taranto il 3 marzo 1945 dalla cittadina di Volo. .
Pietro Sordi, Gallicano nel Lazio, 22 giugno 1921 - 4 maggio 1989
Durante la Seconda Guerra Mondiale fu Sottotenente dell'artiglieria nell'Egeo. Dopo l'8 settembre rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Fu prigioniero dei tedeschi fino alla conclusione della guerra.
Morì nel maggio del 2001.
Segue un estratto dal libro di Alessandro Natta "L'altra resistenza" (Einaudi, Torino 1997)
"Alla fine del gennaio 1944 al campo di Asguro, a Rodi, si trovavano internati circa 5000 soldati e una trentina di ufficiali rimasti con i loro reparti. Dopo alcune false partenze (si scendeva al porto, si restava una notte o un giorno ad attendere una nave che non giungeva e si ritornava infine al campo) la sera del 7 febbraio giunse l'ordine di partenza per la quasi totalità dei militari internati. Il movimento iniziò nelle prime ore del giorno 8. Al porto convennero altri gruppi provenienti da alcuni distaccamenti del campo di Asguro (Regio Vivaio, Candilli) e dal campo n. 1, che si trovava nella città. Le operazioni di imbarco sulla nave da carico "Oria" si svolsero con grande rapidità. Si scendeva nelle stive per mezzo di scalette di corda. Fu allora il primo contatto con la brutalità e l'odio dei tedeschi. Le S.S. e la Feldgendarmerie portavano via gli zaini migliori, soprattutto quelli degli ufficiali, nella speranza di far bottino (anche le gavette e le coperte erano oggetto di preda) e chi tentava di difendersi o di resistere alle offese veniva legato, minacciato con le pistole, schernito. Nelle stive alcuni energumeni, armati di bastoni, stipavano fino all'inverosimile gli italiani via via che giungevano. Il carico era enorme: si stava in piedi uno accanto all'altro, stretti e pigiati, senza possibilità neppure di muoversi, e già dai primi momenti l'aria era divenuta irrespirabile. Finalmente, quando la nave fu partita, dopo mezzogiorno, per tolleranza della scorta e buon volere dell'equipaggio (i marinai erano quasi tutti greci e pure alcuni italiani), la stiva venne scoperta, gli ufficiali e un certo numero di soldati poterono via via risalire sul ponte permettendo così al maggior numero di sedersi e respirare. Il viaggio fu tranquillo, senza allarmi, sempre in prossimità delle varie isole dell'arcipelago. A notte si giunse in una baia, quella di Lero. Sbarcati sotto la pioggia e il vento, si dovette compiere una lunga marcia per arrivare a Porto Lago, dove avremmo dovuto sostare."
Detto Giorgio.
Di Santa Sofia (Forlì), scomparso il 28 agosto 2020 all'età di 98 anni.
"Dovevo esserci anch'io su quella nave colata a picco con quattromila soldati italiani. Era piena come un uovo, ecco perché la mia Compagnìa venne lasciata a terra".
Giorgio faceva parte dell'11° Reggimento fanteria 'Casale' di stanza a Forlì, che venne inviato sul fronte greco e poi stanziato ad Atene e nell'isola di Rodi.
La Compagnia di Delvis Melini venne lasciata a terra, il giorno dopo dovettero seppellire le centinaia di corpi di commilitoni affogati.
"Di notte spesso i miei sogni si trasformano in incubi, mi ritrovo su quella spiaggia punteggiata di poveri Cristi cancellati dalla storia".
Giulio Antoniacci e Delvis Melini si sono incontrati, dopo quasi 70 anni, nel marzo 2012.
24/7/1922-3/10/2014
Sottufficiale nell’Egeo, dopo l’8 Settembre 43 si oppose alla Repubblica di Salò, prigioniero in molti campi di concentramento, sopravvissuto alla follia omicida nazifascista nel campo di sterminio di Mauthausen.
L'11 febbraio 1944 fu tra gli ultimi ad essere imbarcato sull'Oria.
Vive a Sesto Fiorentino.
Segue un'intervista del maggio 2012 di Massimo Massai.
"In quella zona il tempo era molto variabile; si passava da delle giornate bellissime con un mare come l'olio e nel giro di una paio di ore si scatenava l'inferno, in terra e in mare. Sicuramente il giorno 12 febbraio 1944 fu una giornata di quelle peggiori".
"Quando imbarcarono il nostro gruppo – che era l'ultimo – 250/300 persone, l'Oria era già stracolmo, erano pigiati come sardine quei poveri ragazzi. Poi, a un certo momento, venne un tedesco che sbraitando fece scendere gli ultimi saliti, fra i quali c'ero anch'io. Ma noi salimmo senza che nessuno ci prendesse il nome cognome e grado, almeno io non me lo ricordo"
"Nei giorni successivi alla partenza dell'Oria non abbiamo saputo niente del naufragio. Personalmente l'ho saputo non tanti anni fa".
D: Una volta scesi dall'Oria dove vi hanno portati?
R: Ci hanno portati subito in altri campi. Credo di essere stato a Argiro (?), ma non ricordo bene, comunque ci hanno sparpagliati in tutta l'isola di Rodi perché non volevano che rimanessimo uniti .Poi ci portarono a Lero dove ci facevano caricare e scaricare gli zatteroni. Sgombrare le macerie e fare le strade. Un lavoro massacrante, senza magiare, senza dormire , neppure su una misera brandina. Solo dormire sulla nuda terra, per quelle poche ore che dormivamo. Pensi che ho magiato erba bollita con l'acqua di mare, perlomeno era un po' salata, lumache e vermi. Quando sono partito da Lero ero più morto che vivo.
D: Quando è partito da Lero?
R: Allora, prima di partire da Lero, voglio raccontarle quanto mi è successo. Sa che ho rischiato la fucilazione? Allora è successo questo. Una sera – era già buio - ho visto in lontananza un lumicino di una casa. Dico a me stesso, voglio andare laggiù, sicuramente hanno qualche cosa da mangiare. Fatto sta che mi sono allontanato con il rischio di essere messo al muro. Arrivato davanti a questa casa, vedo un recinto con una scrofa e i maialini; accanto un recipiente con il pastone e un pezzo di pane assai grosso che ci galleggiava. Hai visto, magiare il pezzo di pane fu un secondo. Fatto questo bussai e mi aprì una giovane ragazza italiana che si chiamava Gina (sa, era pieno di italiani in quelle isole) e quando mi vide mi disse subito "che cosa hai fatto sciagurato" e che se mi trovavano mi fucilavano subito assieme a lei. Era una ragazza sfollata in quel posto da Rodi città, dove i suoi avevano un ristorante e un albergo. Lei sapeva parlare diverse lingue era "istruita". Ad un certo punto sento gridare in tedesco e bussare alla porta. Lei mi disse di fingermi svenuto cosa che feci e lei parlando in tedesco spiegò che ero uno fuori di testa e che ero svenuto. Dio volle che non mi fucilarono e mi riportarono al campo. La sa una cosa ? Anni fa contattai "Chi l'ha visto" e sono riuscito a rintracciare un fratello di Gina che vive a Bologna ed è tutt'ora vivo come pure un suo cugino che vive a Verona. Gina purtroppo, mi dissero che era morta nel 1957. Mi è dispiaciuto tantissimo……suo fratello mi disse che non ero stato il solo a essere salvato da Gina.
D: Quando è stato trasferito da Lero per essere deportato in Germania?
R: La data precisa non me la ricordo. Mi ricordo soltanto che quanto arrivai a Erfurt erano i primi di maggio ed era nevicato. Il freddo che ho patito Dio solo lo sa……..Ma le volevo dire della partenza da Lero. Allora un bel giorno ci caricarono come sardine (ci buttavano di peso nelle stive, senza neppure l'uso di una scaletta o di una fune per scendere) su una nave che non ricordo il nome per portarci al Pireo. Io feci di tutto, resistendo ai colpi dei calci dei fucili nella schiena, pur di salire fra gli ultimi e così fu. Non so quante ore sono stato aggrappato al boccaporto pur ti tirarmi su da quella calca inimmaginabile di persone che avevo sotto di me, perché eravamo a strati e i primi entrati facevano la fine peggiore. Quella di morire soffocati e,infatti, io sentivo un gran gridare sotto di me ed allo stesso tempo mi sembrava che le mia gambe prendessero fuoco………….quei poveretti cercavano disperatamente di aggrapparsi alle mie gambe per tirarsi un po' su e respirare, come facevano con altri che erano nella mia stessa posizione. Una volta sbarcati al Pireo mi accorsi che avevo le gambe scarnificate dai graffi e tanti di quei poveretti erano morti soffocati durante la traversata. Se ci penso mi viene da piangere anche ora che sono passato quasi 70 anni.
D: Mi dica qualche cosa della prigionia in Germania.
R: Tremenda, terribile, inimmaginabile. Prima mi hanno portato a Buchenwald e poi poco dopo a Mauthausen. Appena arrivai il kapò mi disse, in un'italiano stentato, che rimpiangerò di non essere stato fucilato in Grecia…."scheisse macaroni"…..non ho mai capito chi lo avesse informato di ciò perché deve sapere che quando arrivai al Pireo da Lero successe una rissa. Due ragazzotti repubblichini mi apostrofarono con "vigliacco, traditore badogliano" e altre parole offensive. Mi diedero tanti di quei cazzotti che finii a terra e allora, mi accorsi che c'era un manico di cucchiaio, lo prendo e mi butto su uno dei repubblichini per colpirlo e,invece, colpii alla gola un soldato tedesco che era li vicino. Meno male che non lo uccisi….Questo kapò me ne fece di tutti i colori, le trovava di sottoterra. Un giorno mi chiamò e mi disse: "domani vai a lavorare nel Sonderkommando (sa quelli che gettavano nei forni crematori i cadaveri dei deportati) almeno sarò felice di vederti uscire di lassù prima o poi" e a questo punto indicò la vetta della ciminiera del crematorio.
D: Ha mi pensato di farla finita?
R: Si diverse volte, specialmente la mattina quando si usciva per il "lavoro" ( si lavorava in delle grotte a fare i pezzi di ricambio per gli aerei e altre cose che non ricordo bene) e vedevo i morti aggrappati al filo spinato elettrificato. Sa, li c'erano 20000 volt………..pensavo, e se mi ci buttassi anch'io? Ma non l'ho fatto perché era troppo forte la voglia, ovvero, cercare in tutti i modi di sopravvivere per poter rivedere il mio babbo, la mia mamma, mia sorella ... insomma casa mia.
Massimo Massai: "Non lo nascondo, per me è stata una "chiaccherata" (come si dice in toscana) molto emozionante, ma ancora più emozionante è stato il momento dei saluti, quando il sig. Lippi mi ha ripetuto un paio di volte "bravi, molto bravi, lei e i suoi amici a fare quello che state facendo, ma non potete mai capire, mai…."
Silvano Lippi faceva parte del 35° Rgt artiglieria al quale appartenevano molti dei caduti dell'Oria. Silvano salì sulla nave tra gli ultimi, per poi scendere quasi subito per ordine dei tedeschi. I tedeschi cercavano di distruggere l'organizzazione dell'esercito italiano, dislocando gruppi di 200-300 uomini nelle varie isole. Lui, insieme al suo gruppo, fu fatto vagare da una nave all'altra, notte e giorno, senza alcuna meta precisa. Rodi si arrese ai tedeschi in Ottobre. Ricorda la scrupolosità dei tedeschi nell'annotare i nomi degli imbarcati. Molti soldati venivano trasferiti in Germania per essere usati quali mano d'opera, ma diverse navi venivano affondate appositamente dai tedeschi. Lui viaggiò da Atene a Samos, dove esisteva un ospedale tedesco. (Salvatore Criniti)
Silvano Lippi è l'autore del libro 39 mesi, 60 anni dopo, nel quale racconta la sua prigionia nei campi di concentramento prima nell'Egeo e poi in Germania e in Austria.
www.silvanolippi.it
Sopravvissuto al naufragio.
Nacque a Busalla (Genova) nel 1922, morì nel 2007.
Testimonianza raccolta dalla moglie Caterina e dalla figlia Graziella.
Rodi: era l’11 febbraio 1944. IL mio reggimento era stato fatto prigioniero dai tedeschi il 13 settembre 1943 e dopo mesi ci stavano imbarcando su un piroscafo per trasferirci in un campo di prigionia: non so esattamente dove, ma so che da Rodi eravamo diretti al Pireo di Atene. Di bocca in bocca avevamo saputo che il piroscafo era norvegese: era conciato talmente male che a salire là sopra bisognava proprio esserci costretti. Ci guardavamo attorno e ci chiedevamo come avrebbero potuto caricarci tutti, ma i tedeschi continuavano a farci salire, e nel frattempo caricavano barili e un sacco di altra roba..
A un certo punto nella fila che mi scorreva a fianco ho riconosciuto un certo Rizzo ( l’esattezza di questo cognome non è certa) originario delle mie parti, anche se non proprio del mio paese. L’ho chiamato. Lui mi ha riconosciuto a sua volta e subito mi ha fatto segno di passare nella sua fila per stare insieme, che tanto ormai la nostra appartenenza a questo o a quel reggimento non aveva più importanza. Io ci ho pensato un attimo, poi gli ho risposto di no: avevo deciso di rimanere lì dove mi avevano messo qualunque fosse stato il mio destino. La mia fila è stata fatta salire sul ponte della nave, l’altra fila letteralmente cacciata nelle stive. Li hanno chiusi là sotto come topi in gabbia. Noi almeno potevamo respirare. Non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di quei poveretti là sotto. Forza ragazzi, forza, ripetevo: a me, a loro, e a tutti quelli che avevo vicino.
Per i tedeschi non eravamo più soldati e neanche uomini, ma soltanto traditori. Meritavamo di essere trattati nel peggior modo possibile, e se stavamo ammassati, schiacciati uno contro l’altro, senza mangiare né bere, ancora grazie, che invece avrebbero dovuto fucilarci tutti. Questo era quello che ci dicevano i nostri ex-alleati, e per loro ogni angheria nei nostri confronti era giustificata.
Quando il piroscafo si è mosso era quasi buio: abbiamo lasciato Rodi. Faceva freddo e il mare era piuttosto agitato: noi stavamo là in mezzo alle onde, senza poterci muovere, incastrati, un po’ a farci coraggio, un po’ muti nella nostra disperazione. C’era chi stava male, e nessuno poteva far niente per nessuno. Poi nella notte si è scatenata la tempesta; vento e pioggia fortissimi hanno investito il piroscafo che ha iniziato a imbarcare acqua. Sembrava il diluvio. Io credo che tutti, proprio tutti avessimo la certezza che stavamo affondando; poi c’è stato il boato dello schianto, il rumore del mare, le grida e l’acqua che mi entrava in gola. Per un po’ ho cercato di nuotare, ma verso dove?
Galleggiava di tutto, e io mi sentivo pesante come se avessi avuto le tasche piene di pietre. La forza del mare era troppo per me, non ce l’avrei mai fatta. All’improvviso, quando ero sul punto di arrendermi, mi sono reso conto che con i piedi avevo toccato terra. Mi sono trascinato a riva e lì ho capito che non ero solo: c’era un altro soldato vivo, vicino a me. Ci siamo tirati su, ci siamo abbracciati, poi abbiamo cominciato a camminare insieme, cercando una direzione da prendere nel buio più totale. Quando ho sentito una mano afferrarmi per un braccio ho pensato “ecco, ci hanno già preso”, invece era un greco, un uomo dalla corporatura robusta, con una folta barba nera. Forse un pescatore. Ci ha fatto capire di andare con lui, e noi siamo andati. Ci ha portati in una abitazione, dentro a una grande stanza con un fuoco acceso, e attorno al fuoco ho visto una decina di altri scampati al mare, nudi, che si asciugavano come potevano. A tutti il greco ha dato da bere del vino resinato e qualcosa da mangiare.
Io non dimenticherò mai quell’uomo per quello che ha fatto per noi, e gli sarò riconoscente per sempre.
I greci sono brave persone; anche a Rodi se potevano ci aiutavano. Il giorno dopo sono arrivati i tedeschi e ci hanno ripreso in consegna. Dovevamo raccogliere i morti e seppellirli. Non si finiva mai: ce li ho ancora davanti agli occhi. Abbiamo scavato fosse e seppellito morti per una settimana. In seguito, sempre prigioniero dei tedeschi, ho rischiato più volte di essere fucilato, ho subito umiliazioni di ogni tipo, ho patito la fame di continuo, giorno e notte, ho mangiato qualsiasi cosa e gli altri come me. Sono riuscito a scappare, ho camminato per giorni interi, poi mi hanno ripreso e riportato indietro. Quando finalmente sono ritornato a casa, il giorno seguente mi sono immediatamente recato dalla famiglia di Rizzo per dire quello che sapevo, e cioè che il loro figlio era finito nelle stive di quella maledetta nave e se non fosse più tornato era perché non ce l’aveva fatta.
Nato a Cerete (BG), era tra i prigionieri italiani dei tedeschi e sarebbe dovuto salire sul piroscafo.
Dopo la naja a Bressanone fui richiamato nel '42 e trasferito ad Atene, per poi essere imbarcato per il Nordafrica. La ritirata italo-tedesca fece cambiare i piani e finimmo sull’isola di Rodi. Lì, per qualche mese, la vita fu relativamente tranquilla. Ero in fanteria, impegnato in compiti di collegamento, per rifornire la contraerea sulle alture. La sera dell’8 settembre 1943, giorno dell’Armistizio, un tenente veronese comunicò lapidario: "Siamo prigionieri dei tedeschi". Alcuni spinsero per schierarsi al fianco dei nazisti, ma la scelta fu chiara, dopo breve consultazione: "Siamo italiani e restiamo italiani". Ci trasferirono in un campo allestito nell'entroterra. Sorvegliati da guardie tedeschi, avevamo cibo razionato. Una porzione doveva bastare per cinque». A febbraio arrivò l’ordine di trasferimento al Pireo, dove migliaia di braccia sarebbero state utili ai tedeschi per il lavoro coatto. Un film già visto il 23 settembre del 1943, quando da Rodi salpò un altro piroscafo, il Donizetti, poi affondato con oltre 1.800 prigionieri a bordo. Ci trasferirono a piedi verso la costa per 20 chilometri. Avevo problemi al fegato per un principio di malaria. Un amico di Rovetta fece in modo di farmi somministrare del chinino, poi si mise al mio fianco, come stampella, e dopo qualche chilometro mi convinse a salire su una jeep tedesca diretta all’ospedale. Sali – mi disse – e arriverai al porto. Lì, mentre attendono l’apertura dei cancelli della caserma, potrai scendere e unirti a noi sulla nave». Così fu, ma il cancello era aperto e la jeep entrò direttamente. Dopo qualche ora poi mi mandarono via. Sulle scale incontrai un sergente italiano, al fianco dei nazisti. Mi apostrofò con una pacca sulla spalla: "Ti è andata bene, i tuoi amici sono tutti in fondo al mare".
Testimonianza tratta dall'articolo "Io scampato al dramma dell'Oria - In TV rivede la tragedia di 70 anni fa" de L'Eco di Bergamo. Articolo di Gianbattista Gherardi (17 febbraio 2013).